frecciamia 

Dal volume "SOTTO I CIELI BLU DEGLI EREI"

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Un alito di fremente quiete

 

Il sole non era ancora sorto e tutta la valle dormicchiava sotto una foschia lattiginosa proveniente dal fiume. Pur acuendo lo sguardo, si poteva indovinare appena la cima di monte Azzolina, mentre non traspariva né dove iniziassero né dove finissero le riviere del Leano. Gli olmi che lo delimitavano erano stati come inghiottiti dalle brume, e niente riusciva a segnare il confine tra il corso d’acqua e i coltivi. Molti cespugli apparivano nerastri, ornati da una miriade di puntini luccicanti. Le fresie e i giaggioli si piegavano fino a toccare terra, talmente erano zuppi d’umidità.

Sembrava che qualcuno avesse svuotato ovunque grandi catini di rugiada, complice il buio della notte autunnale. Le nebbie non riuscivano a nascondere solo il mormorio del torrentello che, scivolando tra pietre muschiate e anfratti selvosi, si riversava in una vasca ottagonale sormontata al centro da un puttino dall’espressione scanzonata.

Ai primi chiarori dell’alba, sul costone di ponente fece apparizione un piccolo gregge di pecore, seguite da un grosso cane fulvo che vigilava affinché tutti gli ovini attraversassero il fiume su un ponticello malfermo. Ma Argo era così sicuro del fatto suo che a volte si allontanava per inseguire un selvatico, a volte si fermava come a meditare sull’importanza del suo ruolo.

Subito dopo, anche il pastore fece la sua comparsa, sbucando dalle fronde di un faggio altissimo. Si trattava di un uomo di mezza età con un leggero giaccone grigio antracite, che lo ricopriva fino alle ginocchia, e una coppola blu di panno. In mano stringeva una verga di nocciolo ben levigata e, salendo per la collina, fischiettava un motivetto popolare, venandolo di note malinconiche. Quando il cane gli fu vicino, s’inginocchiò per accarezzarlo e lo incitò a riunire le pecore nella radura erbosa sul pianoro, dove avrebbero sostato ebbre della riconquistata libertà di pascolare.

Di minuto in minuto, nella foschia cominciavano a lameggiare larghe chiazze di luce che facevano distinguere le cose. Rialzandosi, il pastore si fermò accanto al fico del pantano, da cui raccolse alcuni frutti maturi. Poi, sbucciandoli lentamente, ne gustò il sapore genuino, esaltato dalla rugiada che li ricopriva. Quando infine guardò verso levante, vide che stava sorgendo il sole. Nella stessa direzione, quasi alla sommità dell’altura, poco distanti fra loro, gli apparvero due grandi costruzioni che svettavano nettamente su tutte le altre: si trattava di Villa Martines e dell’Eremitaggio di Santa Maria della Consolazione, di cui era parte integrante la dimora dei monaci agostiniani di campagna. 

Straordinaria fu la rapidità con cui le foschie si diradarono, levandosi a ondate successive dai cespugli e dagli alberi più bassi.

La luce cominciò a riflettersi nelle pozzanghere e lo sfavillio del fiume fu sempre più un crescendo, fino ad apparire come un immenso nastro d’argento che si srotolava a mano a mano.

Il pastore si accomodò su una roccia ampia e piatta, quindi, frugando nella bisaccia, tirò fuori una contorta radice di ulivo e, con l’ausilio di due piccoli arnesi di acciaio, iniziò a intagliarla. Era questa una sua passione: enucleare da pezzi di legno, modellati in parte dalla natura e altrimenti destinati al focolare, forme stilizzate di uomini, di donne, di animali, di corpi intrecciati e di uccelli in volo in grado di generare emozioni in chi, guardando quei manufatti senza il pregiudizio che fossero stati realizzati da un umile pastore, li sapeva apprezzare.

Sebbene non si potesse dire che si trattava di opere eccezionali, quelle sculture erano dotate di una tensione plastica ottenuta mediante torsioni, movimenti e gestualità dall’arcana virtù di evocare una realtà fantastica. Con il passare degli anni quelle statuine diventavano sempre più belle, alcune così degne da potersi esporre in una mostra d’arte.

Forse il pastore non era consapevole di questo suo talento, né in cuor suo si sentiva un vanesio costruttore di bellezza: semplicemente, quell’attività contribuiva a riempirgli la vita frugale che conduceva, contento di donare gli intagli più riusciti a quanti lo stimavano e gli erano sinceramente amici. Tanto gli bastava per sentirsi incoraggiato a non abbandonare la sua passione.

Intanto che il sole pian piano saliva e l’aria si faceva più calda, la bruma mattutina lasciò pure gli alberi più alti e il profumo di terra bagnata si mescolò all’odore dolciastro del fumo dei camini. Uno stormo di colombi volò dalla pineta, i passeri cinguettarono a perdifiato. Giù al fiume, facendo gazzarra, i cardellini sorvolarono le punte degli abeti, qualche merlo si tuffò nelle gore uscendone con le piume del petto arruffate.

Fra così grande fermento il gregge era giunto alla torretta di avvistamento sul monte, da cui si dominava una vista mozzafiato. Non lontano dalla suggestiva impalcatura si trovava la casupola malconcia del guardiano, dove il pastore si fermò pochi minuti per scambiare quattro chiacchiere e bere una tazza di caffè d’orzo.

Calcandosi, urtandosi, belando, le pecore si sparsero intorno all’abbeveratoio, provocando una nuvola di polvere, finché al fischio del padrone, Argo non le sloggiò in direzione del versante opposto in cui scomparvero immediatamente. Sarebbero state di nuovo all’abbeveratoio nel pomeriggio, per un’altra baruffa sotto il sole tiepido del tramonto.

Dopo l’ultimo tratto di cammino nella penombra del noccioleto e fra il mormorio del vicino ruscello, finalmente il pastore e le sue pecore furono a casa. Nello spiazzo vicino all’ovile c’era un bagolaro dal fogliame vigoroso che in caso di necessità si diceva potesse riparare un’intera compagnia. Sul davanti del recinto si stendeva l’orizzonte lontano, mentre sul retro il terreno era occupato da un boschetto di castagni. Ai lati, alcuni dossi argillosi, malcoperti di vegetazione e quindi vulnerabili al ruscellamento, avevano finito con assumere il tipico aspetto dei calanchi.

Al rientro del gregge, nella confusione generale, si sentirono i cani abbaiare, messi subito a tacere dai fischi prolungati di Sergio, il mandriano che aiutava Luciano a custodire l’ovile e a predisporre ogni cosa, affinché al suo ritorno tutto quanto fosse pronto: il letame rimosso, il fieno disposto nelle mangiatoie, il pentolame per la lavorazione del latte, la fornace già allestita, la tavola ben apparecchiata.

C’era tuttavia un’ultima cosa da fare prima di godersi la pace della sera: mungere le pecore. Perciò il pastore e il suo giovane aiutante si misero all’opera senza perdere tempo. Sistemati nelle proprie postazioni e indossato il ruvido grembiale per non sporcarsi i vestiti, i due costringevano gli animali a stare ben fermi fra le gambe, mentre premevano ritmicamente con le dita le loro mammelle, facendo attenzione che il latte finisse nei paioli di rame. Nel profondo silenzio del luogo si sentivano lunghi belati, come se in una lingua incomprensibile agli umani le pecore volessero gridare tutta la loro disapprovazione per quest’ultima tortura prima del sonno ristoratore.

Una volta depositato il frutto del loro seno, gli ovini correvano allegri dentro il recinto per accovacciarsi, affrancati dal timore di essere allontanati dagli agnelli. Solo allora Luciano si avviò in casa per lavarsi prima di cenare.

Guardandosi allo specchio, si accorse che stava invecchiando: erano lontani i tempi in cui poteva faticare per giorni senza stancarsi! Volesse o no, ormai non aveva più il vigore dei begli anni; perciò, dispiaciuto, indugiò a confrontarsi con la figura riflessa, quella di un uomo alto e robusto, con evidenti tratti di persona dal forte carattere. Il suo volto abbronzato era sormontato da una fronte spaziosa e nel suo profilo regolare spiccavano un bel paio di baffi di un candore argenteo. Gli occhi chiari e mobili sembravano accigliati, tradendo i rimpianti accumulati nel corso della sua vita.

Come se dovesse presentarsi a una riunione, quella sera indossò una bella camicia a quadri su un pantalone di velluto ma, cercando di abbottonarsi il colletto, vide che le sue mani si erano fatte grinzose e tremanti. Nonostante cercasse di dissimulare, si sentiva stranito e, quando il suo aiutante lo chiamò, fu come se rinvenisse da un mondo lontano.

A quel punto Luciano interruppe i suoi pensieri: uno su tutti lo tormentava, anche se di esso non aveva fatto parola con nessuno. Nel momento in cui fu in soggiorno, trovò tutto a tavola: le lasagne alla Norma fumanti nella scodella, le costolette di agnello alla brace, formaggio e verdure fritte, una forma di pane nel tagliere. Prima di sedersi tirò fuori dalla credenza una bottiglia di vino invecchiato, messo da parte per le grandi occasioni. Il gatto, da suo buon amico, gli si accoccolò sulle gambe.

<<Che cosa festeggiamo?>> chiese il mandriano tradendo visibilmente la sua curiosità.

<<Lo saprai presto>>, rispose il pastore con la voce un po’ rotta per l’emozione.

Si guardarono negli occhi per abbassarli subito dopo imbarazzati.

<<Lo saprai molto presto, adesso pensa a mangiare!>>.

Sergio si arrese facendo una smorfia in segno di disappunto, mentre Luciano gli porgeva una scodella piena di lasagne e gli riempiva il bicchiere di vino. Il giovane assaporò la gustosa pietanza ricoperta di melanzane fritte e condita con pomodoro, basilico e ricotta salata, che porta il nome della più bella opera del celebre compositore Vincenzo Bellini. Che buon sapore aveva! Tutto gli sembrò prelibato quella sera, eppure non erano certo una novità, le lasagne alla Norma! Staccò un pezzo di pane e se lo portò in bocca assieme a una forchettata di verdure.

Perché Luciano lo guardava in quel modo? Che cosa voleva dirgli? Osservando sottecchi, si accorse che non spiccicava gli occhi dal piatto.

Sembrava pensieroso. Allora si concentrò nuovamente sul cibo, mangiando e bevendo a sazietà, al contrario del pastore che pareva non avesse molta fame malgrado la lunga marcia per portare le pecore al pascolo.

<<Insomma! Volete dirmi cosa succede?>> sbottò Sergio a un tratto, stringendo il bicchiere vuoto in mano.

Luciano accennò un sorriso. <<Pazienza>>, sembrò rispondergli con uno sguardo sornione ed enigmatico, <<ciò che ti devo riferire è così importante per la tua vita che prima voglio divertirmi un tantino!>>. E solo dopo aver bevuto a piccoli sorsi il suo vino, con tono solenne sentenziò: <<Se lo desideri… se ti va… potrai rilevare l’ovile con tutto quello che c’è dentro!>>…