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Dal volume "DI QUEST'ANTICA TERRA"

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I segni dell'arte sulla città

 

“Città antichissima posta nel cuore di Sicilia, dicesi   che havea quindici casali attorno tutti nel suo distretto e sotto il suo dominio, et Ella era metropoli e così sempre fu splendidissima per tutti i secoli”.

Risale al XVI secolo questa descrizione di Piazza del celebre madrigalista e storico Antonio il Verso, probabilmente desunta dall’opera del geografo arabo Edrisi, che descrisse minuziosamente l’isola e le terre mediterranee in un libro dedicato a Ruggero II d’Altavilla, il grande re normanno che governò in Sicilia dal 1130 al 1154, creando uno tra i più organizzati regni europei dell’epoca.

“Metropoli”, dunque, fu Piazza nel lontano passato, ma “città splendidissima” è ancora oggi grazie agli originali caratteri impressi nel suo tessuto, da cui trapela la radice del vivere nella storia e, prima della storia, in epiche vicende, fra il mito e la favola, che risalendo il corso dei millenni sono giunte fino ai nostri tempi. E facilmente quel passato ancora s’indovina e s’intravede nel presente, in cui continua a fulgere.

Breve, infatti, è il passo tra guardare e immaginare in questa città! Così ben legati sono tra di loro i segni degli eventi! Resti greci e romani, bizantini e arabi, normanni, svevi, aragonesi. Palazzi, chiese, conventi, castelli nel mezzo del paese o sparsi in un territorio ricco di valli e dolci colline trapunte di oliveti, vigneti, noccioleti, di monti in cui crescono fitti boschi di pini, eucalipti, abeti.

Al centro dell’isola, in vista del celeste mare di Gela, una volta Piazza era luogo di partenza o d’approdo di popoli desiderosi di conquista, mossi dal sogno di rompere le corte catene di un’esistenza divenuta troppo grama, per penuria o per noia dei giorni sempre uguali a se stessi.

In tanto idillio e in tanta bellezza, nello stile sobrio della gente, nei sommessi toni del paesaggio, tuttora sopravvive il fascino di una comunicazione che, al di là delle parole, giunge direttamente al cuore e alla mente dei giramondo, paghi solo d’essere in cammino tra elementi artistici e naturali già prediletti da molti viaggiatori famosi.

Ma poiché ogni cosa dipende e nulla è sciolto da cause, sono quest’idillio e questa bellezza l’effetto di avvenimenti che, pur distanti nei secoli, continuano a irradiare una luce ammaliante in questo ameno paese? E nel caso, in quale età ciò s’è verificato? Che sia stato lo sconfinato amore per il Bene dell’incantevole principessa Argelia, figlia del re Antero e della sfortunata regina Antea!

La sua semplicità e la sua grazia, il suo sguardo limpido e pieno di zelo, il suo modo di comandare, umile come se volesse servire gli altri, il suo tenero sorriso e la sua calma, tutto questo ha fatto sì che se ne tramandasse il ricordo dopo tanti anni.

Ogni cosa cominciò sulla verde terra di Monte Naone, per quanto non è da escludere che l’episodio di Argelia sia semplicemente una di quelle attraenti leggende che nell’isola portarono i Greci di Etolia e di Eubea intorno al VII-VI secolo a.C., quando nell’animato mondo mediterraneo diedero vita al più luminoso centro di civiltà che in seguito originò l’unità spirituale dei Siciliani.

Di certo, assieme al mito, in cui mirabilmente si fondono storia e archeologia, poesia e religione, i coloni greci recarono con sé anche la vitalità dei misteri Eleusini e il culto di Dioniso, che tanto contribuirono allo splendore culturale della Sicilia di quel periodo.

Secondo gli studiosi, i più antichi abitatori storici di “Trinacria” sarebbero stati i Sicani, popolazione agricola originaria del Medio Oriente poi soggiogata dai Siculi, stirpe guerriera proveniente dall’Italia centrale che nulla poté contro i nuovi invasori, i quali, dopo aver occupato le coste, risalendo i fiumi Dittaino e Simeto, Salso e Imera, riuscirono a imporsi pure in alcune zone dell’interno particolarmente fertili per la presenza di estese aree umide.

Quello fornito dai Greci fu un decisivo contributo nell’ordinamento razionale della società umana, che per la prima volta vide in Sicilia la nascita di libere istituzioni, di documenti e corrispondenze scritte, di scuole e codici legali. Tanto i Siculi erano stati “rozzi e illetterati”, quanto i figli dell’Ellade coltivarono mirabilmente numerose discipline, quali la geometria e l’agrimensura, l’ingegneria e l’astronomia. Inoltre idearono la commedia, perfezionarono il teatro, diedero nuovo impulso alla poesia e alla filosofia.

E’ in questo quadro di vasti e avventurosi mutamenti che, verosimilmente, gli ultimi arrivati fondarono su Monte Naone una delle loro città-stato, identificata dallo studioso Litterio Villari con quell’Ibla Erea di cui scrivono gli storici dell’antichità Diodoro Siculo e Tucidide.

Nella suggestiva altura, fortilizio naturale e posto ideale per la venerazione degli dèi, contigua ai fiumi Gela e Braemi le cui esondazioni rendevano i campi adatti alla coltivazione del grano, i Greci conquistatori, senza dovere compiere un grande sforzo immaginativo, rividero incarnata Demetra, dea della vegetazione e dell’agricoltura, e la figlia Kore, che insieme costituiscono la perfetta metafora del ciclo della vita e dei lavori rurali.

Sulla cresta di Monte Naone, quindi, già abitato dai Sicani e dai Siculi che adoravano divinità ctonie, si realizzò quell’incontro di riti da cui derivò la fusione di due civiltà: un popolo costituito prevalentemente da pastori, agricoltori e cacciatori, stanziato in un luogo traboccante d’acqua e rigoglioso di messi, si unì con la prima razza europea emersa nella piena luce della storia, che senza tanta fatica impose agli abitanti autoctoni la propria lingua, le proprie idee politiche, l’amore per i commerci e la navigazione, il desiderio di colonizzare nuove terre e di progredire nelle arti dell’essere.

In tal modo tutte le fila erano tirate e, molte cose, fin da allora, parlavano perfettamente chiaro di quello che nelle epoche a venire sarebbe stato…