frecciamia  

Dal volume "SOTTO I CIELI BLU DEGLI EREI"

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 Nelle viscere della terra

 

[…] Prima di infilarsi nella discenderia per raggiungere le gallerie, Luigi si girò a guardare il cielo. Era lontano, lontanissimo. Si chiese come avrebbe fatto a risalire per decine di volte al giorno, dal sottosuolo fino in superficie, con una pesante gerla sulle spalle. Dubitò che le gambe avrebbero retto, ma si avviò per raggiungere gli altri che avanzavano fra beffe e sghignazzi.

Numerosi picconieri staccavano dalle gallerie grandi blocchi di zolfo, dopo di che li facevano rotolare affinché i loro aiutanti potessero lavorarli per ridurne le dimensioni.

I carusi indossavano un sacco di canapa con uno degli estremi modellato a cappuccio. Anche lui ne infilò uno, era quello che sua madre gli aveva cucito e rivestito di morbida stoffa. Guardò i cumuli di ganga; sentì quindi la bocca asciutta e il viso contratto. Un caruso diede le sue spalle mentre due aiutanti alzarono la gerla impolverata per sistemargliela sopra. Luigi lo vide barcollare, con le gambe che quasi gli si piegavano; emise uno sbuffo di vapore, riuscendo tuttavia a drizzarsi sotto il gran peso. Una volta in marcia gli passò accanto in direzione del cunicolo.

Dio, quant’era pesante quel minerale di zolfo! E lui, come avrebbe fatto lui a farcela?

<<Luigi!>> lo avvertì il capomastro che apriva la fila per controllare che la squadra fosse al completo. 

Suo padre lo spinse a prepararsi: <<Forza…>> gli disse a bassa voce, <<non ti attendevi che fosse così, vero? >>.

Quando furono nella galleria loro assegnata, il capomastro parlò con uno dei picconieri, che lo ascoltò svogliatamente. I due osservarono la volta illuminata dalle lampade ad acetilene, indicando un punto qui e un altro lì, prima di rivolgersi un cenno d’intesa. Giunto in prossimità dell’incavo in cui doveva introdursi, Luigi finse di essere calmo, pur avendo il cuore in subbuglio. Batteva i denti. Non poteva permetterselo! Mosse le braccia e poi le gambe, si piegò in avanti: più volte si arcuò simulando di avere il carico addosso. Si defilò dietro un ponteggio, non voleva che lo vedessero spaventato.

Il capomastro fece cenno a uno degli zolfatari di trattare bene il nuovo arrivato, al che lui guardò il ragazzo e, indicando ai suoi aiutanti di alzare uno degli stirriaturi pieni, gridò: <<Per me sono tutti identici, ma se può fargli piacere, scelga lui quale!>>.

Quando vide che i due tipi issarono il contenitore, Luigi si avvicinò. Si curvò e poi piantò i piedi per terra aspettando il carico. Essi lasciarono andare cautamente la gerla aiutando il ragazzo a equilibrarla sulle spalle. Sentendone il peso egli si piegò ancora di più e sentì una fitta sulla schiena. Strinse i denti, corrugò la fronte e, per un attimo che gli sembrò interminabile, emise un urlo.

<<Dai!>> gli parve di sentire dal fondo della galleria,   <<dai, dai che ce la fai!>>. E a questa incitazione, dando un colpo di reni, si aggiustò. Furono in tanti a parteggiare per lui. La situazione lo richiedeva.

A maggior ragione doveva riuscire, perciò, raccogliendo le forze, si portò in avanti. Il primo passo era fatto. Inspirò profondamente e il peso stesso della ganga lo costrinse a muovere altri passi, fino a quando cominciò a procedere con attenzione. Un vecchio minatore si tolse il casco e si grattò la fronte.

<<Avanti, ragazzo!>> gridò qualcuno che aveva assistito alla scena da un passaggio parallelo.

<<Ce la farai! Per Santa Barbara, sì che ce la farai!>> disse un altro dei presenti.

Le esortazioni gli risuonavano ancora in testa e lo sostennero, soprattutto quando si ritrovò sulla scala che lo avrebbe riportato all’esterno.

Intanto gli altri carusi che avevano iniziato dopo di lui non ci misero molto a raggiungerlo e, per un po’, ritmarono il loro passo in base al suo per incoraggiarlo. Mentre uno arrivava, l’ultimo che aveva rallentato riprendeva a marciare con l’andatura abituale. In cuor suo, Luigi fu grato a tutti quanti; anche se non riuscì a proferir parola, i suoi sguardi erano così eloquenti! La sua concentrazione era rivolta a quelle scritte in rosso che indicavano la salita ancora da percorrere per arrivare fuori. Con tutta la sua volontà, egli cercava di vincere il dolore che sentiva sulle spalle.

Giunto a metà strada si accorse che le sue gambe erano irrigidite. Sbuffava, stringeva i pugni, ma niente! Allora gli sovvenne del modo in cui prendevano fiato suo padre e suo nonno durante la raccolta delle nocciole: appoggiavano i pesanti sacchi sul bordo di un terrapieno ad altezza d’uomo. Cercò quindi un punto adatto allo scopo e poco dopo lo trovò nello sperone di una roccia, dove riuscì a reggere la cesta di vimini riempita di ganga fino all’orlo. Se l’avesse deposta a terra, non sarebbe stato in grado di ricaricarsela sul dorso!

<<Se ti riposi, non lo fare per molto>>, lo aveva avvertito suo padre, <<altrimenti le gambe ti si contrarranno e non riuscirai più a procedere>>.

Sgravato del peso, egli riprese fiato. Si distrasse ripensando alla serata precedente trascorsa nella taverna del borgo, da Malvasia. La schiena gli faceva male. Un male sordo e costante. Si fermò qualche minuto a riposarsi, poi rivolse lo sguardo attorno: era completamente solo in quell’angusta cavità che tuttavia gli sembrò immensa. Guardò un cristallo di gesso che risplendeva alla luce dell’acetilene, ascoltò il silenzio di quel mondo sotterraneo e quindi risollevò la ruvida cesta accompagnando il gesto con un grido. Si sentì le gambe più sciolte. Un passo dopo l’altro riprese la direzione di marcia. Tutto gli sembrò più facile.

Arrivato quasi all’uscita, si rilassò ancora un attimo, voleva che una volta fuori la sua andatura fosse leggera.

In quel momento ecco passargli a fianco alcuni carusi diretti alla galleria per il secondo carico, nemmeno uno parlò. Soltanto, si scambiarono qualche sguardo d’intesa. Luigi si sentì uno di loro e questo gli piacque. Prima che scomparissero nella discenderia, li ringraziò tutti tra sé e sé.

<<Ormai si può dire che l’ha vinta la sua sfida…>> spiegò un anziano minatore ai presenti, girandosi a osservare il lento incedere del ragazzo.

<<Ce l’hai fatta!>> commentò un altro, <<è quasi arrivato>>.

Quando superò definitivamente il sottosuolo e si lasciò alle spalle il buio, Luigi cominciò a incrociare gli operai che lavoravano all’esterno della miniera. Orgoglioso di avercela fatta, cercò di rimanere concentrato sugli ultimi movimenti: era quasi arrivato ai calcheroni! Arditori, fabbri, falegnami, maestri d’ascia, tutti osservavano in silenzio il ragazzo schiacciato sotto il peso del suo carico di zolfo, grondante di sudore ma con l’espressione soddisfatta. Ognuno lo guardò rispettosamente, ora che aveva avuto il suo “battesimo” di caruso. A questo punto era uno della compagnia e tutti, col pensiero, andarono al tempo in cui anche loro avevano iniziato a lavorare allo stesso modo.

Alcuni si unirono ai suoi ultimi passi concedendosi un momento di pausa, con gli occhi fissi alla cesta conica da cui fuoriuscì un pezzo di zolfo. Così, dopo più di mezz’ora di fatica, Luigi era arrivato alla meta, accompagnato da una piccola folla. I lavori s’interruppero del tutto. Gli arditori si sporsero dai bastioni sopra i calcheroni, mentre gli spaccapietre che lavoravano i materiali di risulta della fusione dello zolfo tralasciarono per un attimo le loro faccende. Il capomastro era lì ad aspettarlo. Il figlio del fabbro, che aveva la sua stessa età, fu il primo ad avvicinarlo.

<<Bravo!>> gli gridò. <<Ormai ci sei riuscito anche se ti sembra di non avere più forza nelle gambe>>.

Da ogni angolo del cantiere si sentivano bisbigli d’incoraggiamento. Quanti l’avevano già conosciuto esplosero in più urrà di gioia. Tutti gli operai attorno si unirono a quell’esultanza, persino il cane che bazzicava giù in miniera, nutrendosi degli avanzi dei pasti raccolti in un tegame, sembrò capire l’importanza del momento.

Apparentemente incurante di questo entusiasmo, Luigi continuò a essere concentrato a dove metteva i piedi: non voleva sbagliare proprio adesso, prima di raggiungere il calcherone in cui andava versato lo zolfo. Ancora qualche passo e, finalmente, i manovali degli arditori si affrettarono a prendergli la gerla che aveva portato lì dal profondo della montagna.

Solo allora alzò la testa; poi, togliendosi il sacco di dosso, si sgranchì e rivolse un sorriso a tutti i presenti. Molti lo avvicinarono per rallegrarsi. Il ragazzo non aveva mai visto quegli individui: tra loro riconobbe solo il capomastro che lo aveva seguito in più punti del tragitto e con lo sguardo gli indicò la statua di Santa Barbara. Lui, coinvolto dalla serietà del suo gesto, si girò e disse: <<Col vostro aiuto, Venerata Patrona dei minatori! E con l’aiuto della mia famiglia che mi ha sempre sostenuto! A mio nonno Luigi, che Dio l’abbia nella sua gloria>>. Scandì bene un’Ave Maria e la sua dedica perché tutti lo sentissero. Poi s’inginocchiò e baciò tre volte la terra sotto di lui.

Quando la piccola ressa di operai si allontanò e Luigi era pronto a tornare giù come aveva visto fare agli altri carusi, uno dei sorveglianti lo chiamò: aveva ricevuto ordini dal capocantiere che dirigeva i lavori all’esterno.

<<Ho un bicchiere di acqua fresca per te>>, gli disse.

Lui si fermò e lo guardò meravigliato.

<<Bisogna che tu mi segua nel refettorio, dove ti aspetta un ricco spuntino prima di portare su un altro carico.>>.

<<Ma… Se…>> reclamò lui, indicando gli altri carusi che stavano iniziando una nuova discesa.

<<Niente se e niente ma! Per oggi tocca a te questo privilegio. Un giorno, tu lo renderai a qualche altro>>…