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Dal volume "IL RITORNO"

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Era destino che succedesse

 Dal capitolo VII

Appena Fra’ Antonio si accorse di lui, spense il motore della pialla e aprì le braccia per accogliere il suo allievo preferito di un tempo, quello che prometteva di diventare un bravo intagliatore.

Il profumo del legno lavorato si librava nell’aria, persistente e gradevole. Entrando da una finestra, con la grata di ferro, la luce del pomeriggio, bassa e radente, colpiva il volto di Ludovico mostrando la sua sofferenza. Il monaco se ne accorse, perciò ancor di più l’abbraccio che gli riservò fu di quelli che non si scordano.

Il giovane Rodriguez posò su uno sgabello lo zaino e con affetto sincero: «Riverisco Frate Antonio, mio amato maestro di vita e di arte».

Dapprima il grand’uomo si schermì e poi rispose: «Non esagerare. Su questa terra nessuno è maestro di nessuno. Tutti siamo qui per imparare e per capire che niente è paragonabile alla luce del Regno dei Cieli. È attraverso il fugace passaggio nel mondo che abbiamo la possibilità di attuare la nostra potenza spirituale».

Il suo fare da vegliardo paterno e intelligente, che ha analizzato sia le cose della terra sia quelle del cielo, contribuì a metterlo a suo agio. Pur non avendo mai percorso le strade del mondo, Fra’ Antonio non si stupiva di nulla. Tutto questo Ludovico lo sapeva già, perciò continuò a lodarlo come solo si può fare se si prova affetto sincero per qualcuno, frattanto che nel suo cuore si materializzavano le memorie di quel bel periodo, prima che si perdesse come risucchiato da una nebulosa informe e vischiosa.

«Pace e bene, figliolo. Come mai da queste parti? Quanto tempo è passato, ma non vedersi non vuol dire dimenticare!».

Gli chiese se voleva sedersi e, come sempre faceva con chiunque fosse preda di qualche affanno, gli batté ripetutamente una mano sulla spalla. Un lieve sorriso percorse il suo volto vigile ed ebbe un lampo di comprensione per ciò che Ludovico cercava di dire, malgrado non avesse ancora parlato, così esperto com’era dell’inconscio umano attraverso anche le sue velate manifestazioni.

Si ricordò perfettamente di quel ragazzo vispo e dotato, che non solo voleva apprendere l’arte dell’intaglio ma che aveva mille curiosità riguardo alle ragioni del cuore, ai disegni misteriosi del cielo, al destino ultimo dell’uomo, alla salvezza dell’anima.

«Perdonatemi venerabile, ma a parte mio padre e mia madre, non ho nessuna persona al mondo con cui confidarmi. Almeno una volta c’era anche Donata, ma non so se mi ama ancora come prima, per quanto in questi ultimi giorni mi è stata di grande aiuto».

«Non è così», lui replicò, «fortunato colui che possiede se stesso, perché non c’è risposta alle nostre domande che non ci provenga dalle profondità del nostro essere. Ogni conoscenza è strutturata saldamente nella nostra coscienza. E un allievo ascolta il proprio maestro solo quando è veramente pronto! Riguardo alla tua fidanzata, tu non sei il tipo di uomo che una donna può scordare facilmente».

Ludovico si sentì rincuorato da queste belle parole pronunciate dal Frate che anni addietro era stato il suo confessore, perciò decise di raccontargli la sua storia, con franchezza e senza reticenze.  

«Dopo che ho lasciato il mio lavoro di apprendista intagliatore, ho continuato a studiare e mi sono diplomato. Ho perfino iniziato l’università, iscrivendomi a filosofia, ma purtroppo l’ho abbandonata. Non l’avessi mai fatto. La noia, la superbia, l’abbrutimento, l’indolenza, la pigrizia, hanno fatto da battipista alle cattive compagnie...».

Fra’ Antonio lo zittì autorevolmente: «Non esistono cattive compagnie, siamo noi gli artefici del nostro destino, noi siamo quello che vogliamo essere».

[…]Il monaco fece una smorfia prolungata e le vene che solcavano la sua fronte gli si gonfiarono visibilmente.

«Tu sbagli quando dici che i soldi erano i tuoi, alla fine scaturivano dalle truffe che hai commesso, anche se “in concorso”, come si usa dire nei tribunali. Non ti ripugna entrare in possesso del maltolto? Lascia l’intera refurtiva ai tuoi soci di un tempo, come li chiami tu. Ricomincia dal tuo lavoro, sei un valente artigiano e molti ebanisti sarebbero contenti di averti come aiutante, costruisciti il futuro in modo retto, questo dovrebbe bastare al Signore per perdonarti».

«Ho peccato, Fra’ Antonio, provocando amarezza a quelli che ho derubato. E poi, sapeste la disperazione in cui ho gettato mio padre e mia madre! Agendo così ho anche macchiato la vostra santità giacché voi credevate in me», ammise Ludovico non riuscendo a fermarsi più.

Poi singhiozzando, con le lacrime agli occhi, riprese a parlare.

«Non so come questo sia potuto accadere, se avessi ascoltato i vostri consigli, sarei diventato un mastro e avrei arricchito i mobili delle case degli sposini. Invece no, a un certo punto ho pensato che potevo avere facilmente più denaro diventando un ladro. Chissà se Dio potrà mai assolvermi?».

«Dio perdona tutti se in chi sbaglia c’è sincero pentimento... e il proposito di riparare le offese», gli ricordò il frate.                

Ludovico sorrise. Come benefiche gli suonarono quelle parole che in altre forme aveva ascoltato da lui stesso in passato. Solo che adesso esse avevano riscontro con la sua condizione di colpevole sia agli occhi di Dio, sia a quelli degli uomini, mentre una volta non riusciva ad afferrarne il senso. Acuendo quindi lo sguardo, per fargli intendere che aveva compreso, egli replicò: «Maestro, che cosa mi consigliate di fare?».

Allora il frate, levandosi gli occhiali, lo fissò con i suoi occhi limpidi e puri e continuò a parlargli con voce che infondeva serenità.

«Alleva nelle profondità del tuo essere propositi di bene, di amicizia, di solidarietà, di giustizia; vai a trovare quelli che hai danneggiato e, se puoi, risarciscili senza che essi sappiano chi sia il loro benefattore. Ma, soprattutto, volgi lo sguardo al cielo più spesso che puoi e chiedi al Signore che ti dia la forza di rinascere a nuova vita. Il timore di Lui è inizio di sapienza».

Ludovico abbassò la testa. Se da una parte si sentiva eccitato, dall’altra cominciò a fare ordine dentro di sé. Poi, riprendendosi dallo smarrimento, chiese: «Venerabile, ricordate di allora? Ricordate di quando qui all’eremo noi ragazzi ne combinavamo di tutti i colori? Ah, com’erano belli quei giorni... magari potessero ritornare!»

Davanti a quell’essere superiore s’era lasciato andare, s’era mostrato nostalgico, balbettante, confuso.

«Pensa piuttosto al momento presente, la vita si trova soltanto nel momento presente. Il passato? Non esiste più. Il futuro? È tempo che deve venire. Cogli l’attimo, e fai in modo che il presente sia la calce con cui fabbricarti un buon futuro. Non solo quello terreno ma soprattutto l’altro, quello che attende ognuno di noi dopo “il volo inesorabile” dell’anima per renderla all’Eterno», lo spronò Fra’ Antonio.

Fermandosi quindi un attimo e guardando in alto dov’era un Cristo di legno sorridente e benedicente, egli continuò: «Che il Signore abbia la compiacenza di posare la Sua mano sul tuo capo!».

«Maestro, perché doveva succedermi tutto questo, perché Dio non me l’ha impedito?» Ludovico lo interrogò ancora.

«È inutile che ti arrovelli il cervello. Era destino che succedesse. Non cercare una risposta ai tanti perché che ti poni, non verresti a capo di niente, ma piuttosto cerca il modo di uscire dalla situazione in cui ti trovi. Medita quindi sugli errori commessi e proponiti di non rifarli mai più».

Ognuna delle parole dette dal frate scese nel cuore di Ludovico lasciandogli una sensazione di gratitudine infinita per quest’uomo straordinario. Egli provò per lui un inspiegabile amore, simile a quello che provava per i suoi genitori. Sentendosi quindi ancor più incoraggiato, come un figlio che chiede al padre, si spinse a domandargli la sua intercessione per ottenere una grazia.

[…]Il sole stava declinando rapidamente e tra poco sarebbe stata l’ora della preghiera in comune con gli altri frati prima di cena. Ludovico capì e, prima di congedarsi aggiunse: «Venerabile, mi avete fatto sentire come se la vostra casa fosse casa mia, così come si saranno sentiti a casa anche mio padre e mio nonno quando frequentarono il convento, abitando assiduamente qui nel borgo di Leano. A voi è dovuto ogni ringraziamento per far sentire così chiunque venga a bussare alla vostra porta».

Udendo ciò Fra’ Antonio affermò: «Riguardo a me, non sono padrone di nulla. Questa non è casa mia. “Signore, Signore”, dice il saggio, “tutto è tuo e niente è mio”».

«Che belle parole e che splendido insegnamento, maestro».

Egli lo rimproverò dolcemente.

«Non far finta e non mentire. Dici pure che ti piacciono queste parole, ma da qui ad affermare che sei disposto a metterle in pratica ce ne passa».

«Ci proverò maestro. Vedrà se ci proverò!».

Subito dopo il frate chinò il capo, la barba gli si allargò sul petto e cominciò a recitare la preghiera dell’Avemaria.

Pazientemente Ludovico aspettò, si ritrasse e, appoggiando la schiena a una botte da consegnare a un vinaio del borgo contemplò il venerabile sprofondato nel suo dialogo col Signore. C’era ancora, ma sembrava irraggiungibile. E a tratti invisibile. Tutt’intorno di vivo e di reale non c’era più nulla fuorché la vita interiore del grand’uomo. In quel momento Ludovico sentì l’ansia stringergli il cuore, il fastidioso pungolo del rimpianto, le delizie e gli incubi dei suoi sogni, prima di raccogliersi in se stesso e dimenticare tutto; prima di abbandonarsi a una corrente misteriosa che lo trasportava lontano, in sterminate praterie cosparse di fiori variopinti, in abissi profondi pieni di pericoli e insidie dove solo il suo passato era intellegibile, mentre le immagini che riguardavano il suo futuro erano sfocate e indecifrabili.

Quando infine Ludovico tornò dal suo lungo viaggio e anche Fra’ Antonio riemerse dalla sua breve ma intensa meditazione, l’allievo s’avvicinò al maestro e delicatamente gli domandò: «C’è qualcosa che posso fare?».

«Sì, riponi quest’asse, lo vedi com’è grezza? Domani sarà liscia come una carta velina. Anche noi siamo così, figlio mio, dobbiamo passare attraverso mille prove prima di essere graditi agli occhi di Dio. Mi hai chiesto cosa voglio? Vai a prendermi una brocca di acqua fresca dalla fontana, ho sete! Mentre vai, mentre aspetti che la brocca si riempia, diventa tutt’uno con quello che stai facendo, anche questo è un modo di pregare, non con le labbra ma con la parte più profonda di te stesso. Fai e prega, mangia e prega, lavora e prega. Ogni tuo passo su questa terra sia una preghiera e una lode alla bellezza della vita».

Il sole non era ancora tramontato. L’ultimo filo dorato di luce si era ritirato anche dalla finestra che dava luce alla falegnameria. Ludovico pensò che lo attendeva un’attenta e profonda riflessione, doveva fare i conti con la sua coscienza ma era libero di scegliere quale strada intraprendere: se quella larga e sfolgorante di luci, oppure quella stretta e in penombra. Egli era dunque arrivato a uno di quegli incroci fatali che sempre si presentano nella vita di un uomo: lui e la sua libertà di comprendere, lui e la sua libertà di dare più voce al suo ego oppure al suo spirito.