Il tempo e la memoria

 

IL TEMPO 300 440

 In copertina:
John Atkinson Grimshaw, pittore impressionista inglese

È forse il mio cuore nostalgico, / che come allodola / in un campo di grano /
appena mietuto / canta e saltella / smanioso di leggere / la scia dei suoi anni più belli?

 

 

 

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Sinossi

Il passato e la nostalgia, ma anche la voce interiore che si manifesta quando siamo in ascolto di noi stessi, sono il leitmotiv di questo libro, attraversato da felici intuizioni espresse con la leggiadria della poesia: ultimo approdo e luogo dell’“altrove” dove il poeta, specchiandosi senza infingimenti, in un gioco infinito di rimandi, dà voce ai perenni interrogativi dell’uomo che oscillano fra angoscia per l’invincibile caducità dell’esistenza e desiderio di eternità. Se non quella voce – immediata e sincera, efficace e tagliente, tenera e severa allo stesso tempo – che altro può muovere un uomo a chiedersi qual è il senso della sua vita?

 

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Tratto dalla prefazione

Il meraviglioso è sempre bello,
anzi, solo il meraviglioso è bello.
                                                                                          

André Breton

 

Il passato e la nostalgia ma anche la voce interiore che si manifesta quando siamo in ascolto di noi stessi sono il leitmotiv di questo libro, attraversato da felici intuizioni espresse con le scarne parole della poesia: ultimo approdo e luogo dell’“altrove” dove, specchiandosi senza infingi­menti, in un gioco infinito di rimandi, scaturiscono gli eterni interrogativi oscillanti fra l’angoscia per l’invincibile caducità dell’esistenza e il desiderio di eternità. Se non quella voce – immediata e sincera, efficace e tagliente, tenera e severa allo stesso tempo – che altro può muovere un uomo a chieder­si qual è il senso della sua vita?

   Pino Bevilacqua si cimenta, dunque, su temati­che di carattere ontologico, ma stempe­rando gli ardui ragionamenti della materia con gli strumenti propri della poesia, deciso a tradurre in linguaggio intellegibile l’idea che il senso di ogni cosa è il suo essere presente in un dato momento: non c’è altra vita se non questa!  

   La silloge si compone di tre parti – una in versi, le altre due in prosa – dense di un “arioso poetare” che fa luce sulla sfolgorante oscurità dell’ignoto, rivela ciò che esiste ma non si vede, dà voce a chi si esprime con una voce diversa da quella umana: Il trillo dei grilli culla l’insonne piana… Chiassosi i passeri sugli olmi, frullano e s’inebriano… Nel folto del canneto è tutto uno schiamazzo di folaghe e di rane.

   Un intrigante percorso poetico-narrativo, in­som­ma, che se da un lato esplicita la visione del mondo dell’autore, dall’altro mostra la sua sensibilità a percepire il fremito divino che anima il paesaggio, come nella poesia “Batte l’orologio: Fresca è la sera e già / tra violacee nubi, / s’arrampica tonda la luna / che spande il suo argento / sopra i colli e nella valle; oppure nella prosa “Qui mi sento di casa”: Canta un’allodola tra le forre del brolo, la sua melodia tanto somiglia alla voce suadente di un vecchio saggio che istruisce i suoi discepoli con l’esempio e con gli insegnamenti dei filosofi più rinomati.

   È complicato delineare un preciso quadro storico sulle origini della poesia: sicuramente essa risale a moltissimo tempo fa, ma in ogni caso è stata una delle prime forme d’arte con cui l’uomo si è espresso, dopo essersi affrancato dalla condi­zione bestiale-umana nella quale era rimasto confinato per millenni. Non riuscendo a spiegarsi i fenomeni naturali, l’“ancora primitivo essere” avrà provato un sentimento di unione col “Tutto” e di fusione del proprio spirito con “il ticchettio della pioggia sulle capanne, lo stormire del vento tra le fronde, lo scintillio del fuoco, il mormorare dei fiumi nelle valli” e chissà quanti altri lin­guaggi dell’ambiente in cui si svolgeva la sua esistenza. E se le prime poesie mai scritte fossero state ispirate proprio da queste suggestioni? Pino Bevilacqua lo presume, e ne dà elegantemente conto prendendo a prestito dalla saggezza indu­ista l’espressione Tat twam asi, “quello sei tu”, che si trova in chiusa ad una delle prose poetiche della terza parte.

Ma poiché passa il tempo sopra il tempo e le cose cambiano, i discendenti della genia dei primi aedi hanno incominciato a introdurre nei loro “canti”: miti, leggende, culto dei morti, senti­menti, gloria, amore, coscienza di sé, religiosità, rispetto, sensazioni, idee, valori, principi, in una sola parola, tutto quello che fa parte della vita, a conferma del fatto che la poesia è prima di tutto vita!

   Dopo una lunghissima storia, durante cui l’arte poetica si è autorevolmente affermata, oggi viviamo in un mondo dominato dalla fretta e dal razionalismo assoluto, dove non sembra esserci più spazio per i sogni e la fantasia. Se ci si occupa di letteratura bisogna quasi dirlo con pudore, quando invece quest’alta espressione del genere umano, e straordinario strumento di evoluzione sociale, acquieta l’ansia esistenziale, insegna a esercitare l’arma del dubbio, educa a seminare interrogativi e a fare vedere le cose da più pros­pet­tive.

   Se è vero che da sempre la modernità ha realizzato mirabilie in ogni campo del sapere, mai prima degli anni Venti del Novecento aveva indicato un approccio sistematico alla possibilità di conciliare fra loro sogno e realtà. Ma anche queste due importanti dimensioni dell’esistenza devono obbedire a regole e leggi precise: essere saggi e razionali non può che essere d’aiuto, ma guai a chi vi inclina troppo, il rischio che si corre è quello d’inaridire la propria vita. Ma per contro, nessuno pensi che si possa vivere di soli sogni.

   Com’è magistralmente documentato negli intra­montabili poemi omerici dell’Iliade e dell’Odis­sea, fin dall’alba della civiltà, in ogni società, è sempre esistita una minoranza che si è posto il problema di varcare la soglia del visibile e andare al di là, alla ricerca di una dimensione altra: “ineffabile come un sogno e fantastica come il mondo visto con gli occhi di un bambino” [...]

                                                                                        Micaela Rendina
Docente di lingue
Esperta di Letteratura inglese

                                                   

Tratto dalla postfazione

 Il filo rosso dei ricordi
come rimedio all’impermanenza.

La silloge “Il tempo e la memoria” si aggiunge alla ricca e varia produzione letteraria di Pino Bevilacqua che spazia, con una cifra stilistica omogenea e riconoscibile, dalla poesia alla narrativa, mantenendosi fedele a un sistema di valori ben radicati nel cuore della Sicilia più vera e a una particolare sensibilità per il mondo naturale.

In questa nuova raccolta, poesia e prosa coesistono in un baluginante gioco di rimandi: l’opera infatti si articola in tre sezioni, la prima delle quali è esclusivamente poetica, mentre le altre due si presentano come brevi prose in cui convivono descrizione, memoria e riflessione. Un ritmo ternario contrassegna anche l’articolazione tematica e la struttura interna dei componimenti.

La natura nella molteplicità dei suoi aspetti, gli animali che la popolano, in particolare gli uccelli, il dialogo costante dell’io lirico con il mondo e con sé stesso costituiscono i nuclei fondanti della prima parte della silloge, il cui titolo, “Giorno dopo giorno, in noi si fa sera”, racchiude un’eco quasimodiana.

   La peculiarità della rappresentazione naturalistica va colta nel gusto per l’indicazione precisa di piante

e volatili. Non generici alberi e animali, ma olmi, querce, pioppi, robinie, un fico contorto e rinsecchito, flessuose e lunghe canne disseminate nei valloni e negli stagni, e ancora ulivi, cachi e rosse melagrane, fresie, mandorli e campi di grano, allodole, rondini e passeri, la capinera e lo sparviero, colombi che volano a stormi, gazze, fringuelli e lucherini delineano un paesaggio riconoscibile, vero e intrigante, nel quale si aggira l’io lirico che sa trarre dal mondo naturale una profonda lezione di vita.

La riflessione esistenziale si traduce in una sentenziosità alla quale non è estranea la lezione di Montale, esplicitamente ripresa in questi versi di “Luna piena”: Se a volte i giorni pesano / e uguali si ripetono, / rompi una maglia / della rete che ti avvinghia…

Il continuo trapassare della natura dal giorno alla notte, dalla vita alla morte fa percepire all’autore l’impermanenza dell’uomo, della sua vita, dei suoi affetti. Il divenire e mutare delle cose, la consapevolezza di non potersi aggrappare a nulla di stabile provocano un senso di vertigine e di angoscia.

Credere che le cose resistano al mulinare degli anni è pura illusione! afferma il poeta, guardando ora una casa malconcia, ora un glicine rugoso, tutto avviticchiato fin sopra l’ampio terrazzo disfatto e spelacchiato, ora una logora vecchietta che, coi gomiti appoggiati dietro alla finestra, respira l’amaro fiato del suo residuo tempo. Per un momento i ricordi del passato, impressi nell’anima, sembrano potersi salvare dall’oblio, ma, osservando la rugiada che svapora sotto il sole, il poeta si chiede e chiede al lettore:

in mano non ci resta altro / che un’eterea forma di fuga, / un breve passaggio / di cui forse nulla resta?

Tornare al passato, abbandonarsi ai ricordi è certamente dolce, come lo è riconoscere i propri giorni andati nei rumorosi giochi dei bambini sul prato: Di tanto in tanto, / com’è dolce trasalire / nel magico cerchio / dell’infanzia!

Il ricordo può essere, dunque, una medicina per contrastare il rapido scorrere dei giorni. Ma il poeta non si ferma a questa consolatoria certezza, così come non lo appaga la constatazione che talvolta, a discapito del tempo che passa, resistono le suggestive tracce di ciò che è stato. Non è nella ricerca di sparsi segnali di sopravvivenza che sta il senso della vita. Occorre piuttosto accettare con dignità e a ciglio asciutto l’amara verità: sulla terra siamo tutti senza fissa dimora ed è vano pensare di poter ritornare al passato o aggrapparsi all’idea di lasciare traccia duratura di sé. Tuttavia questa consapevolezza non porta al tedio, a un abulico lasciarsi andare al fluire oblioso del tempo; al contrario, l’io lirico da un lato riesce a trovare gioia nel ricordo, dall’altro comprende che vi è comunque una continuità nella vita e che il futuro riposa nel grembo del presente.

Si avverte dunque una costante oscillazione tra due poli: l’impermanenza e il filo rosso dei ricordi, che permette di gustare a lunghi sorsi l’allegria delle belle serate trascorse in compagnia; la consapevolezza della caducità delle cose e la constatazione che tutto ciò che è diviene e resta! Niente in questo mondo nasce o muore per sempre.

Il poeta però non rimane prigioniero di questa impasse,

ma sa rompere la maglia della rete che lo avvinghia e trae da sé stesso e dalla natura lo slancio per proiettarsi in avanti e continuare a vivere secondo i propri valori. Emblematica risulta pertanto la lirica “Non mi stanca la vita” che racchiude il principale nucleo tematico della raccolta: “Sono nel mio scarno petto / dèe e forze contrapposte / che tenaci si contendono / questa mia povera carne / e la fiammella di spirito / che ancora l’anima. // Dell’interminabile lotta, / paziente, ogni giorno, / raccolgo i frantumi. // Eppure non mi stanca la vita / sparsa intorno e ovunque, / luccicante sul mio volto / tonante nelle mie parole. // Eppure non mi stanca la vita, / e il domani m’invaghisce / ancora e ancora allettante / con le sue mendaci promesse”.

Significativa è anche la posizione del componimento: esso, infatti, precede quello dedicato alla pandemia, dal titolo “Lockdown”. Di fronte all’improvviso attacco del male che travolge la vita fisica e morale degli uomini… sotto le farlocche mascherine in cui si respira a malapena… mentre l’un l’altro ci guardiamo con selvaggia diffidenza… il poeta indica la linea di condotta da tenere: affrontare con coraggio lo sconvolgimento della società e non farsi logorare dalla vita che, nonostante tutto, ancora ci invaghisce… con le sue mendaci promesse.  

   Questi temi ritornano nelle prose, che appaiono ora come il punto di partenza ora come il prolungamento della lirica: si ha l’impressione che il poeta abbia voluto da un lato distendere il suo pensiero nel più ampio discorso prosastico, dall’altro raggrumarlo e intensificarlo in un breve giro di versi, sfruttando la polisemia della parola poetica. In

mancanza di precise indicazioni temporali non sappiamo se la prosa preceda o segua la poesia. In ogni caso è come se il poeta ci volesse invitare nel suo laboratorio per mostrarci come uno stesso tema possa essere trattato con due diverse modalità espressive.

Proviamo a confrontare la lirica “Non mi stanca la vita” e la prosa “Una gioia inattesa”: la tematica è simile e viene sviluppata nei due testi secondo un ritmo ternario. Una situazione iniziale contrassegnata dalla tristezza e dalla tensione interiore, un anelito a una quiete stanca, e infine l’improvviso richiamo della vita e il desiderio di inerpicarsi di nuovo per le sue dolci vie. Pur nella somiglianza delle tematiche, diversa è però la declinazione espressiva: nella prosa l’attenzione del poeta si appunta sul mondo esterno, nella poesia è l’interiorità dell’anima a essere posta in primo piano, diventando la sede del duello tra forze contrastanti. Un graduale processo di interiorizzazione e una maggiore sintesi espressiva segnano dunque il confine tra prosa e versi.

Rimanendo ancora nell’ambito della prosa, vale la pena di soffermarsi su due testi che racchiudono l’uno il punto di arrivo della riflessione esistenziale del poeta, l’altro la sua dichiarazione di poetica.

Il primo è “Il volo inesorabile” che si apre con un’affermazione   di montaliana memoria: Non ci sono verità assolute ma solo flebili segnali intellegibili per aiutarci a capire ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Da questa limpida e sommessa dichiarazione si sviluppa un confronto tra la piccolezza dell’uomo e la prorompente vitalità della natura: Le nostre povere forze

sono poca cosa, se paragonate a quelle di un campo di grano che nasce da una manciata di chicchi e si difende strenuamente dai rigori dell’inverno.

Attraverso un processo di graduale sottrazione che abbatte lo stupido orgoglio di chi si sente padrone dell’universo, il poeta perviene a una stoica definizione di felicità: felicità è desiderare ciò che già si possiede e accettare serenamente il proprio destino. Potrebbe sembrare un invito alla rassegnazione, ma non è così.

L’insegnamento che giunge dalla natura suggerisce una via per continuare a vivere e a proiettarsi nel futuro: come valli e boschi, prima del sonno invernale, lanciano un ultimo canto, col quale sembrano voler preannunciare la rinascita primaverile, così l’uomo, se vuole rinascere, deve imparare giorno per giorno a morire a se stesso, a prendere coscienza della propria piccolezza per trarre da questo ripiegamento la linfa che gli consentirà di ricominciare ogni volta la propria vita con umiltà, determinazione e capacità di apprezzare le cose belle che essa gli offre.

La natura è dunque maestra di vita, come suggerisce la prosa “Magister vitae” che contiene anche una dichiarazione di poetica. Il poeta in apertura dichiara infatti di aver “rubato” le idee degli altri, riferendosi agli innumerevoli scrittori che hanno sostanziato la sua formazione e ai quali rende omaggio con puntuali citazioni e allusioni. A un certo punto, però, afferma di voler andare a lezione dai monti che circondano la sua città e trarre da essi ispirazione, come i pittori,

che hanno attinto i loro colori dall’immensa tavolozza della natura. È qui che l’io lirico, rifacendosi alla filosofia orientale, ribadisce il rapporto quasi identitario tra individuo e natura.

Tat twam asi, “quello sei tu!”, recita una delle tre espressioni sanscrite che esprimono il concetto della compenetrazione tra Spirito individuale e universale. L’uomo deve riconoscersi nella natura che è manifestazione dello Spirito universale, rispettarla e sentirsi tutt’uno con essa [...]

                                                                     Maria Concetta Sclafani
Docente di lettere
Autrice di Antologie pei i Licei

                                                                            

 

 

     

 

 

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Il tempo e la memoria
Editrice “La Moderna”

Pagine 98, Euro 16,00
Formato 14x21
Prefazione di:
Micaela Rendina
Postfazione di:
Mariella Sclafani
Il libro è corredato
da
dodici disegni
di L.
Previti,
pittore impressionista.